Evan Penny - Reviews & Essays

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Perché mi estrai da me stesso?

“Perché mi estrai da me stesso?” (Quid me mihi detrahis?), domanda nel racconto di Ovidio il satiro Marsia, creatura subumana, mentre viene scorticato da Apollo che lo ha sconfitto in una gara musicale. Non sorprende che un dio possa creare musica più bella di un comune mortale, ma Apollo, che dovrebbe essere il dio dell’armonia e della ragione, pare essersi spinto un po’ in là con la sua crudeltà. Marsia deve avergli trasmesso parte della sua bestialità. Dopo la prima prova il risultato della gara musicale resta ancora incerto, secondo alcune versioni della leggenda, per cui Apollo si mette a suonare sulla lira rovesciata, cosa impossibile per Marsia con il suo flauto. Ma il dio doveva proprio capovolgere l’armonia per sconfiggere il suo rivale terreno? In varie rappresentazioni antiche della scena, non ultimo il famoso dipinto cinquecentesco del Tiziano, Apollo è raffigurato intento a scuoiare Marsia appeso a testa in giù. Per un artista cristiano come Tiziano, la scena non poteva essere che una forma di contro-crocifissione: dio che sacrifica la bestia, al posto degli umani che sacrificano dio.

Mentre subisce questa tortura, è Marsia a porre la ragionevole domanda: “Perché mi estrai da me stesso?”. Ed è una domanda fondamentale. Perché questo eccesso, Apollo? Cosa fai? La domanda è anche filosofica. Il satiro si chiede veramente perché mai Apollo sia così interessato a estrarre un Marsia interno da quello esterno. Il dio attende al suo lavoro con pazienza e curiosità. Ovidio scrive: “E lui che grida ha la pelle già tutta strappata da tutta la carne; non è che una piaga; da tutto gli sgronda sangue; sguainati, i nervi si vedono, e brillano palpitando le vene spellate; i visceri allo scoperto potresti contarli e contare le fibre che traspaiono in petto”.

La storia del sacrificio di Cristo è sotto molti aspetti l’opposto di quella di Marsia. Il Divino si fonde con l’Umano nella figura di Cristo, la cui morte riconcilia il Cielo e la Terra. Agli uomini viene ora data la possibilità di liberarsi dal peccato originale – il vino vecchio trasportato nella vecchia pelle – e diventare i ricettacoli di un vino nuovo, ritrovando Dio dentro se stessi. Le due storie – lo scorticamento e la crocifissione – rappresentano per gli artisti delle sfide particolari che spesso li spingono ai limiti della loro arte.

Nell’intagliare il corpo di Marsia, gli scultori dell’antichità che rappresentavano questo mito si trovavano a replicare il lavoro di Apollo: cesellando la pietra, definivano prima i contorni esterni della forma del satiro per poi passare a mettere a nudo lo strato sottocutaneo dei tendini e dei muscoli. In questo processo, liberavano la verità materiale dello stesso marmo, che era stato estratto da vene rinvenute sotto terra. Per realizzare le loro figure di Marsia alcuni scultori antichi hanno scelto una pietra dalle tonalità rosse e si sono adoperati a farne emergere le venature. Nel suo dipinto il Tiziano procede in modo molto diverso, pur testando i limiti della tecnica. L’intera porzione centrale dell’opera è occupata dalla figura capovolta di Marsia. Non più un corpo dai contorni nitidi ma una massa di carne sanguinante, Marsia rinvia a un principio alternativo della pittura: una pittura che opera dall’interno verso l’esterno, una pittura non affinata. Mentre è all’opera per trasformare Marsia in un corpo diverso, Apollo libera le potenzialità del colore, palpabile come materiale, anche se descrive realtà terrene confuse e caotiche. Gli altri personaggi del mito, i compagni di Marsia che cominciano a piangerlo, assumono, nella versione del Tiziano, più il ruolo di assistenti o spettatori. Il dipinto anatomizza l’atto del dipingere.

Anche la versione cristiana di Marsia, il Cristo crocifisso, ha portato gli artisti a una condizione limite della loro arte. Nonostante la centralità del tema nella storia cristiana, ci sono voluti secoli prima che l’immagine di Cristo sulla croce facesse la sua comparsa nell’arte cristiana. Nel periodo in cui i cristiani erano una minoranza perseguitata, la croce veniva ancora considerata come lo strumento della forma di tortura ed esecuzione più ignobile, riservata agli schiavi, ai ladri e agli ultimi degli esseri. Solo con la scomparsa dell’Impero romano, e con esso dell’uso della crocifissione come metodo di messa a morte, si sono cancellate dalla memoria le associazioni negative insite in questa scena.

I primi crocifissi sono immagini dipinte: scene della crocifissione del V e VI secolo inserite in una successione di altre scene che sono parte integrante della storia cristiana. Come oggetti autonomi, i crocifissi appaiono numerosi solo dopo il X secolo. Ma anche allora, Cristo viene mostrato come una figura viva fissata alla croce, e solo più tardi sarà raffigurato sulla croce morto o morente. Pertanto, prima non ci sono croci, poi ci sono croci senza un corpo, poi il corpo viene posto sulla croce, ancora vivo, e infine il corpo sulla croce muore. Questo scendere a patti – da parte dell’arte cristiana, dopo una storia più che millenaria – con la figura di un uomo morto sulla croce ricapitola, molto al rallentatore, gli eventi di un pomeriggio in Palestina dell’anno 33 della nostra era, quando venne costruita una croce, vi venne inchiodato un corpo, la croce con il corpo venne mostrata alla gente, e poi il corpo morì, appeso alla croce. Una volta giunti al traguardo di rappresentare Cristo morto sulla croce, gli artisti cristiani fanno a gara nel raffigurare i diversi segni della morte: il sangue, sia seccato che ancora sgorgante dalle piaghe, la pelle livida e lacerata, l’afflosciarsi delle membra, le mani e i piedi contratti, gli occhi annebbiati. Alla fine del XV secolo l’insistenza sul corpo morto di Cristo, e sul compianto di quelli che lo amavano, si è fatta così ossessiva che più di un teologo insorge contro questa tendenza, leggendovi un’implicita negazione del grande disegno della redenzione cristiana. Giunti al 1517, l’anno in cui prende il via la Riforma protestante, esattamente cinque secoli fa, queste raffigurazioni cominciano a essere percepite come esempi della vanità, dell’eccesso e dell’inutilità tout court dell’arte religiosa.

Il Corpo di Cristo morto nella tomba di Hans Holbein il Giovane (1521-1522) costituisce un punto limite nell’arte cristiana, e nell’arte dello stesso Holbein. Che abbia o no concepito questo dipinto come un addio all’arte cristiana, fatto sta che quando si trasferisce in Inghilterra lo lascia a Basilea e abbandona tutti i temi religiosi, specializzandosi invece in ritratti profani di persone vive. Il Cristo di Holbein è senza vita e sigillato nella tomba, ma ciò non significa che siano cessati i processi organici; a questo corpo succede ancora qualcosa. Il sudario sotto di lui s’increspa nei punti dove il corpo trova appoggio: la testa, il gomito, la mano, i piedi. Le pieghe del lenzuolo registrano i piccoli movimenti intervenuti mentre il corpo è rimasto disteso: le contrazioni del rigor mortis. Questi movimenti minimi formano una micro-narrativa, un epilogo non eroico della grande storia della Passione.

Dopo la partenza di Holbein da Basilea, dove ha dipinto questo Cristo, il teologo Giovanni Calvino insiste sulla completa separazione fra arte e religione. Non è contrario all’arte in sé. I talenti applicati dagli esseri umani alle varie arti sono un dono di Dio e quindi dovrebbero essere coltivati. Calvino ritiene semplicemente che l’arte non dovrebbe essere confusa con la religione, perché pretendere che la divinità possa essere rappresentata equivarrebbe solo a denigrarla. I pittori, secondo Calvino, hanno il compito di rappresentare il mondo, la creazione di Dio, in tutti i suoi dettagli e in tutto il suo splendore. Su queste potenti fondamenta teoriche si sarebbe basata la futura arte realista profana. Retrospettivamente, il ritratto implacabile del corpo esamine di Cristo dipinto da Holbein appare sempre di più una dimostrazione della futilità dell’arte cristiana: il realismo che s’immischia con ciò che non lo riguarda.

Evan Penny chiama il suo lavoro “uno scorticamento del realismo”. Finora, ha armeggiato con le procedure della rappresentazione mimetica conducendo esperimenti con corpi esistenti, corpi riprodotti in fotografie e in tre dimensioni, tecniche che si intersecano l’una con l’altra. Nella fase più recente del suo lavoro ha ampliato i suoi esperimenti accostandosi a opere attinte dalla storia dell’arte – antiche sculture di Marsia e il Cristo morto di Holbein, ma anche opere più recenti, quali gli studi di parti del corpo eseguiti da Géricault all’obitorio. Infallibilmente, Penny è stato attratto da opere che sono esse stesse esempi di manipolazione delle tecniche di rappresentazione: sculture dove l’atto di scolpire un corpo diventa una forma di scorticamento, un dipinto dove la cristianità si confronta con la propria negazione e una composizione pittorica fatta di parti del corpo non più appartenenti a un corpo.

Il metodo caratteristico di Penny, consistente nel trasporre gli effetti di una tecnica nelle condizioni di un’altra, non è estraneo alle opere del passato. Le sculture antiche di Marsia sovvertono le consuete convenzioni della scultura mostrando, invece di una figura eretta su un piedistallo, un corpo appeso, allungato, distorto, la sostanza di un corpo che perde i suoi contorni. Questa sfocatura, più confacente alla tecnica pittorica, viene invece applicata alla scultura. Il Corpo di Cristo morto nella tomba di Holbein è in effetti una risposta alla scultura, ossia a una tradizione tardomedievale di figure tridimensionali di Cristo realizzate in legno o pietra e inserite nel registro inferiore delle pale d’altare, o che fungono da fulcro all’interno di scene scultoree del Compianto di Cristo. Quando il corpo è una scultura c’è un limite a quanto la morte può risultare spaventosa, ma le cose si fanno strane allorché Holbein sottrae il corpo alla tridimensionalità e lo riconduce alla vita virtuale, solo con l’intento di rafforzare la realtà della sua morte tramite il colore del corpo vivo e i segni di movimento. Nell’analizzare parti del corpo, Géricault si riallaccia alla tradizione secolare delle copie di frammenti della statuaria antica, ma anche alle sculture anatomiche di parti del corpo destinate allo studio. Tuttavia, nei suoi studi Géricault risale alla fonte: dipinge le sue parti del corpo copiando i cadaveri veri e i corpi mutilati abbandonati all’obitorio… come se volesse dire: “Perché usare l’attrezzatura dello studio quando l’obitorio offre le cose vere?”. Lo studio accademico della figura finisce così per trovarsi sbarrata la strada.

Forse Penny si è ispirato fin dall’inizio a questi esempi dell’arte del passato e lo rende esplicito solo ora. Comunque sia, adesso offre la prossima generazione di intervento. (Ri)traduce in scultura la cassa di Holbein. Prende la figura di Holbein, che è esattamente a grandezza naturale, e l’allunga fino al punto massimo in cui conserva ancora la sua leggibilità di corpo. Ciò significa che la scala a grandezza naturale viene preservata, continuiamo a percepirla, anche mentre lottiamo con questa distorsione quasi insostenibile. Ma se da un lato l’allungamento compromette decisamente il realismo del dipinto, dall’altro, anche mentre ridiamo di questo ridicolo stiramento, siamo turbati da certi elementi che prendono vita, come se liberassero tutte le potenzialità del gesto di Holbein. Nel dipinto originale i capelli di Cristo oltrepassano delicatamente i confini della tomba ed entrano nel nostro spazio, ma solo metaforicamente. Tutto rimane dentro al dipinto. Holbein ha aperto la quarta parete della cassa per consentirci di vedere all’interno della tomba ed essere testimoni della sua realtà virtuale. Quando la cassa è ritradotta in scultura, uno sconfinamento virtuale diventa assurdamente reale. I capelli si allungano, o dovremmo dire che sono cresciuti?

I capelli che superano i limiti della rappresentazione – invitandoci a toccarli, catturando la luce – possono essere visti come un emblema del più vasto disegno del teatro di Penny che lascia spazio a tutta una concatenazione di conseguenze. La figura di Marsia è già distorta dall’estremo allungamento prodotto dal suo essere appeso, perciò la torsione introdotta da Penny è più strana di un semplice atto di distorsione. È un’estensione dell’antica distorsione. Géricault aveva preso a creare composizioni basandosi su decomposizioni, su parti del corpo non più appartenenti a corpi, assemblandole e facendole diventare il soggetto dell’arte. Non è più il soggetto o la composizione a tenerle insieme, ma piuttosto il dipinto stesso, il fatto che questi pezzi e questi frammenti sono stati trasformati nell’oggetto dello sguardo del pittore, sono stati trasformati in arte. Penny fa andare in frantumi la fragile coerenza del dipinto di Géricault (ri)traducendolo in una forma tridimensionale realistica, liberandone l’assurdità, senza la cornice dello sguardo e dello stile dell’artista. E quando fa questo, sorge la domanda: “Quanto grandi dovrebbero essere questi frammenti?” (è la domanda meno urgente per un pittore). La soluzione logica è che dovrebbero corrispondere esattamente alle dimensioni di un corpo, com’era da principio nelle intenzioni di Penny, che ha perfino eseguito dei calchi da un corpo reale, il proprio. Ma, stranamente, il risultato sembrava piccolo, più piccolo di un corpo reale. (Lo so, perché ho visto il “modello” a grandezza naturale con lui che gli stava accanto.) Affinché le parti del corpo appaiano reali, è necessario ingrandirle un bel po’, e allora l’effetto è sorprendentemente simile a quello di un corpo, anche se accentua l’insostenibile stranezza della “non-decomposizione”, o piuttosto “decomposizione” di Géricault. Il risultato è qualcosa che travalica i limiti sia dell’anatomia che dell’arte.

“Non ha esattamente le caratteristiche dell’arte.” “Ho ammirato il suo lavoro e possiedo il suo catalogo, ma non è il tipo di libro che amo esporre bene in vista.” Ecco il genere di commenti espressi sul lavoro di Penny. Claude Lévi-Strauss ha definito come “riduzione” il processo fondamentale delle opere d’arte. Queste attingono dal reale vari elementi e li riducono: da tre a due dimensioni, da una grande quantità di materiali ai materiali selezionati dall’artista, da un’estensione all’interno di una molteplicità infinita (come si può separare un qualsiasi elemento del mondo dal resto del mondo?) a una selezione che riceve una cornice o un piedistallo. Allen Penny agisce nella direzione esattamente contraria. I suoi pezzi hanno la tendenza a essere più grandi dei loro corrispettivi del mondo reale. Le membra a grandezza naturale devono essere ingrandite per risultare conformi alla vita e combattere l’effetto di riduzione insito nell’arte. Penny non riduce, aggiunge. La “grandezza naturale” non viene solo ingrandita, ma allungata e distorta. Gli artefatti di una tecnologia sono trasposti in un’altra, come quando la sfocatura di Photoshop viene riprodotta con il silicone. Alle sculture di marmo crescono i capelli, anche se conservano il loro aspetto di oggetti scolpiti nel marmo: due ordini di realismo sovrapposti l’uno sull’altro.

La logica di Penny indirizzata al sovraccarico minaccia continuamente di abbandonare la categoria dell’arte. Ma anche questo spingersi oltre i confini dell’arte fa parte della natura dell’arte. Come diceva Robert Filliou, “l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte”. L’arte è sempre attratta verso ciò che si trova al di là dell’arte; disgregando i confini dell’arte, riorganizza le premesse dello stesso fare arte.

Alexander Nagel, 2017