Evan Penny - Reviews & Essays

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Incontri ravvicinati di un genere corporeo

Un’intervista con Evan Penny
Robert Enright

Questa intervista è stata realizzata in due parti nel 2017: il 19 gennaio nello studio dell’artista a Toronto e il 10 marzo al telefono.

Robert Enright: Nel suo testo incluso in questo catalogo, Michael Short parla del modo in cui la sua scultura “turba” lo spettatore. La nozione di “inquietante” riveste interesse per lei?

Evan Penny: Certo, la vedo come un punto di partenza. È quel momento di incertezza in cui ci troviamo di fronte a qualcosa che supponiamo di capire, ma che ci porta verso qualcosa di inatteso. Questa caratteristica è presente nel mio lavoro fin dall’inizio, ma ha assunto un peso maggiore nel corso degli ultimi quindici anni. Per me l’inquietante ha a che fare con il divario fra la reazione corporea e quella intellettuale. La reazione corporea è primordiale, viscerale e immediata, e precede il processo intellettuale. La reazione intellettuale contestualizza questa esperienza. Una delle ambizioni o funzioni dell’arte è stabilire una data serie di aspettative, per poi però soddisfarle in un modo inatteso. Se le mie opere mi fanno questo effetto mentre ci lavoro, sento di essere sulla strada giusta e che lo spettatore potrebbe vivere la stessa esperienza.

RE: Michael Short scrive anche che lei “crea sculture del corpo umano e non sculture figurative”. È una distinzione significativa per lei?

EP: È una distinzione interessante da prendere in considerazione; fra l’altro è un’idea che ha informato il mio lavoro fin dalla metà degli anni novanta. L’interrogativo fondamentale che ponevo con le mie prime opere era: “Come posso essere al tempo stesso uno scultore figurativo e un artista contemporaneo?”. Il peso della storia è particolarmente problematico quando ci si dedica alla scultura figurativa, essendo questa così implicitamente legata al premoderno. Per sfuggirvi, ho abbandonato un processo che investiva molto coscienziosamente nell’osservazione diretta e costante del modello e, in un certo senso, questa scelta mi ha avvicinato di più all’idea del corpo, all’immediatezza di tale esperienza.

 

Nei primi anni novanta, e certamente negli Skin Drawings, tutto s’incentrava sulla domanda: “Che cosa intendiamo quando parliamo di ‘figura’ e che cosa intendiamo quando parliamo di ‘corpo’? Perché si può fare un lavoro ‘basato sul corpo’ ma non si può fare un lavoro ‘figurativo’? Un lavoro ‘basato sul corpo’ non è anche ‘figurativo’ e viceversa? Perché facciamo queste distinzioni?”. C’è stato un periodo negli anni ottanta in cui queste domande avevano notevole risonanza, e a ragione. Ma ho finito per capire che si trattava di false contrapposizioni. Che tutte le opere basate sul corpo sono figurative. Che il “corpo” è il fenomeno o il campo, e la “figura” è la rappresentazione o la comprensione di questo campo. Quello che sto tentando di dire, e che evidenziano sia Michael Short che Alexander Nagel, è che uno dei modi di affrontare la questione è dire che passiamo dal preverbale al verbale, dal corpo alla sua rappresentazione.

RE: Quando mi trovavo nel suo studio non aveva ancora terminato l’Autoritratto dai frammenti anatomici di Géricault, ma stava esaminando gli studi che aveva eseguito all’obitorio. Mentre sviluppava quest’opera, in che modo la sua osservazione di quei tre studi l’ha aiutata a realizzare la scultura in tre dimensioni?

EP: Il fatto che gli studi di Géricault raffigurino la natura morta da tre punti di vista diversi mi ha fornito sufficienti informazioni per immaginare un’interpretazione scultorea tridimensionale. Guardando una sola immagine non ci si sarebbe accorti, per esempio, che una delle gambe era già stata dissezionata, o che era contorta, né si sarebbe notata la configurazione del drappo dietro la spalla. Se avessi avuto a disposizione un solo punto di vista, certi elementi fondamentali della composizione che ci consentono ora di girarle attorno, così da cogliere l’accuratezza della sua esecuzione rispetto all’originale, non sarebbero stati possibili.

RE: L’altra cosa affascinante riguardo la sua fonte è che, partendo da un piccolo studio, è poi approdato a una scala totalmente diversa.

EP: Già. La mia idea era trasporre quei tre piccoli dipinti gestuali in un grande oggetto scultoreo estremamente dettagliato. Sentivo però di non disporre ancora di abbastanza informazioni, perciò ho deciso di cominciare dalla realizzazione di un piccolo modello mediante i calchi delle mie membra nelle posizioni desiderate. Dato che la versione più grande doveva essere tratta da quei calchi, è diventato subito ovvio che l’opera sarebbe stata una sorta di autoritratto. Un’altra cosa incredibile e inaspettata era che il modello finale realizzato con i calchi a grandezza naturale sembrava ridotto e più piccolo rispetto al naturale, mentre la grande versione, che pareva addirittura monumentale nel suo stato intermedio in argilla, una volta completata appariva più piccola e più fedele a una scala umana. Come ha sottolineato Alexander, era come se dovessi ingrandirla per avere una connessione più diretta con essa in quanto esperienza corporea su scala umana. E questo accade solo quando la si osserva. Se per caso stai guardando qualcun altro mentre guardi questi oggetti, la scala cambia di nuovo e la grandezza della scultura si fa molto evidente. Questo la dice lunga sulla soggettività della percezione e su come registriamo le esperienze.

 

RE: La mia impressione è che il Torso sospeso tenda alla monumentalità più di ogni altra opera esposta.

EP: Sì, è così. È un frammento monumentale e ciò rappresenta una sfida. Da un lato, è solo un grosso frammento di scultura; dall’altro, però, è dotato di peli e possiede alcune delle qualità della pelle. La superficie evoca la carne, le ferite e i difetti del corpo, ma anche il passaggio del tempo che corrode e disgrega una figura di pietra. Quando trasformo le imperfezioni della pietra in escoriazioni della pelle, la pietra erosa lascia spazio al corpo vulnerabile, e questa connessione con il corpo riporta l’oggetto monumentale a una scala umana. Uno dei modi per spiegarmi questo fatto è immaginare la visione, quasi sfocata data l’estrema vicinanza, che un neonato ha del corpo di un adulto. È un tipo di prossimità al di fuori di un contesto spaziale più ampio, senza che veramente si sappia di chi sia quel corpo. Speravo davvero che il Torso sospeso potesse comunicare questo senso inconscio e preverbale di prossimità e relazione. Che sia appeso all’ingiù accentua questa sensazione, come anche il fatto di toglierlo da un piedistallo. Non funziona più come un frammento di torso classico. Se fosse appeso a una catena, si potrebbe pensare a una cava industriale dove le pietre vengono issate da un posto all’altro, ma personalmente lo associo più a un bozzolo o a una crisalide. Esprime un’idea di metamorfosi, di passaggio a un altro stato, uno stato di divenire piuttosto che di disintegrazione. L’idea di appenderlo al contrario è stata un caso fortuito. Alla fine del processo di fusione, avevo bisogno di appendere il pezzo per poter rimuovere la gomma e liberare dallo stampo la scultura in silicone ormai completata. Mentre toglievo la gomma e mettevo a nudo il torso, ho pensato: “Oh mio Dio, è come lo scorticamento di Marsia”. Vedendolo pendere capovolto, mi sono reso conto che quella era la trasformazione di cui avevo bisogno.

RE: Il Torso sospeso si connette anche all’idea del corpo spezzato, martoriato e, come lei ha appena menzionato, del corpo scorticato, idea che è stata resa in pittura da Rembrandt e Soutine.

EP: È giusto. All’inizio del progetto non era chiaro quanto lo scorticamento, lo stiramento e lo smembramento sarebbero stati funzionali nel filo narrativo, ma in seguito hanno certamente impresso una decisa direzione. Sono anche emerse fortuitamente delle sottonarrazioni, come la vicenda di Marcantonio Bragadin, un capitano veneziano scorticato e squartato nel 1571. Scoperto da Michael Short, questo terribile episodio è una delle ragioni per cui il Tiziano, che aveva la sua bottega nello stesso quartiere in cui è situata la chiesa di San Samuele, ha eseguito il dipinto La punizione di Marsia. La particolare scultura cui faccio riferimento nel mio Marsia si trova ai Musei archeologici di Istanbul. Vedo quest’opera greco-romana come un’immagine di proto-crocifissione. Quindi, le opere in questa mostra sono state tutte concepite indipendentemente, ma in seguito sono emersi numerosi legami che le hanno connesse le une alle altre.

RE: Il fatto che il Torso sospeso sia la prima cosa che si vede nell’installazione della chiesa di San Samuele pone la questione del coinvolgimento dell’osservatore nel percorso narrativo della mostra. Il crocifisso nella chiesa stabilisce un’importante connessione con Marsia perché, come indica Alexander Nagel, il Cristo crocifisso è la versione cristiana di Marsia. I due autoritratti rinviano poi all’uso del suo corpo nei calchi ispirati a Géricault. Quindi tutti i corpi si connettono mentre l’osservatore passa da un’opera all’altra della mostra. Presumo sia questa la logica alla base dell’incontro.

EP: La premessa di fondo rinvia al titolo di Michael Short, “Chiedi al tuo corpo”. Si potrebbe dire chiaramente, in poche parole: “Se sei nel dubbio, chiedi al tuo corpo. Se continui a essere nel dubbio, chiedi alla tua esperienza, e se il dubbio persiste chiedi alla tua cultura”. Ciò suggerisce che il primo incontro avviene attraverso il corpo, poi è contestualizzato attraverso l’esperienza personale e successivamente attraverso la propria storia culturale. L’idea è questa. Il Torso e l’antico specchio veneziano che è stato collocato nell’ingresso rappresentano il momento del primo incontro, quando l’esperienza avviene tramite una risposta corporea. Le sculture e le fotografie con l’autoritratto da giovane e da vecchio rappresentano queste riflessioni attraverso l’esperienza personale, mentre le tre altre sculture tratte dall’arte del passato rappresentano la riflessione attraverso una storia culturale più profonda. Questo filo narrativo si dipana man mano che ci si inoltra nella chiesa. L’ultima opera che si vede è l’Omaggio a Holbein, “separata” dal resto da una parete divisoria. Sta di fronte all’altare, dove ho posto una panca lunga e stretta in stile Shaker affinché il visitatore possa sedersi a contemplare.

RE: Alexander Nagel cita una sua affermazione dicendo che è coinvolto in “uno scorticamento del realismo”. Potrebbe sviluppare questa idea?

EP: [ride] Non ricordo di averlo detto, ma mi piace! Sono sicuro che è una buona osservazione. Non sono del tutto sicuro di avere ancora analizzato questo risvolto. Ma sì, il mio lavoro tenta di accostarsi al “realismo” in modo decostruttivo.

RE: Be’, questo fa di lei Apollo nella storia di Marsia. Lei è il dio e non la vittima degli dei.

EP: Esatto. Ma sono anche Marsia. E l’hybris di Marsia è a sua volta l’hybris dell’artista che gioca a essere dio.

RE: Quando abbiamo parlato nel suo studio in gennaio, lei ha detto che queste opere sono molto più personali e al tempo stesso molto più impersonali. Mi sto ancora spremendo le meningi sul significato di questa affermazione contraddittoria.

EP: Sono più impersonali perché giungono da qualcun altro e da un altro tempo. Ma ciò che le fa essere più personali è il fatto che sono sovraccariche di emozione. L’opera originale mi dà qualcosa che viene poi alterato e amplificato dal mio intervento. Non sono io a creare quell’intimità o quell’emozione intensificata, ma la eredito. Questo mi garantisce sia la connessione che la distanza critica di cui ho bisogno per il mio lavoro. Posso contemporaneamente identificarmi e dubitare. Il mio lavoro si è sempre opposto alla narrazione e ho evitato i tableaux o le strutture narrative che così spesso ci si aspetta dalle opere figurative. Non lo considero una lacuna del mio lavoro, sebbene alcuni pensino il contrario. È uno dei punti che ho sempre voluto affermare con il mio lavoro.

RE: La sua resistenza alla narrazione è stata un fattore determinante nel suo accostarsi alla scultura agli esordi?

EP: Sicuramente. Durante la scuola d’arte e come giovane artista, provenendo dal tardo modernismo, mi piaceva lavorare con il corpo umano e la scultura figurativa, ma non mi rapportavo alla tradizione narrativa. Sapevo di non essere interessato a creare statue che raccontassero di temi storici o contemporanei. Pensavo che la struttura narrativa storica per la scultura figurativa non avesse più senso o non fosse più disponibile per me. Perciò, come ho accennato prima, ho abbandonato il modello e il corpo stesso. Ho spogliato le figure dei loro gesti narrativi e mi sono concentrato sull’osservazione intima. Ho adottato soluzioni che potevano essere più collegate agli approcci modernisti astratti, come il lavoro in serie, o con i frammenti, o le associazioni narrative che si creano attraverso la giustapposizione e l’influenza esterna. Ci sono voluti gli anni ottanta, con il movimento femminista e il discorso sul corpo, perché vedessi con maggior chiarezza la questione della “figura” contro il “corpo”. Più mi concentravo su quell’idea e più c’era spazio per chiedere “Chi siamo adesso?” e “Come ciò può esprimersi sotto una forma materiale?”. Analogamente, non sono interessato a fare ritratti, ma lo sono invece all’arte del ritratto. Non esco a cercare le persone più interessanti o le celebrità, non elaboro visioni romantiche di chi potrebbe essere questa o quella persona. Per me, è più una questione di cosa sia questa cosa chiamata “ritratto”. Come è possibile fare un ritratto? E, nel mio caso, come in questo contesto l’influenza pervasiva della fotografia e del cinema informa e condiziona la mia comprensione e il tipo di oggetti che posso creare? Cosa posso dire nella scultura che si connetta con questo? È così che funziona per me. Per esempio, quando lavoro con soggetti reali o ne creo di inventati, o passo dal progetto L. Faux alla serie No One – In Particular, ai Backs, agli Stretches e agli Anamorphs, si può dire che siano tutti esplorazioni di diversi aspetti del ritratto e che tutti giochino sulle domande “Come immaginiamo noi stessi adesso?” e “Come posso fare rappresentazioni di queste idee?”. Penso che in questi nuovi lavori sensibilità o orientazione siano più o meno la stessa cosa. Ora si potrebbe credere che faccio ritratti di opere storiche nello stesso modo in cui facevo ritratti di “persone”. Accostarmi ai ritratti da questa prospettiva mi concede abbastanza spazio per sentire di poter dire qualcosa.

RE: Mi ha detto che per creare queste opere attingeva a tutto ciò che conosceva. Ha scoperto qualcosa che non conosceva?

EP: Ancora non lo so. Credo che volessi suggerire che, per poter cambiare il proprio lavoro, si ha bisogno di sfruttare tutto ciò che si conosce. L’idea di creare un nuovo lavoro sottintende implicitamente che bisogna abbandonare qualcosa che si è già fatto per poter passare a qualcosa di nuovo. In realtà, per me non è stato così. Mi ritrovo i guardare indietro, a ripercorrere tutta la mia storia, il che significa guardarmi dentro e tirare i fili che mi permettono di avanzare. Bisogna recuperare tutti questi elementi per potere stabilire una relazione con ciò che si può fare dopo. L’ho vissuto molto letteralmente quando ho realizzato il progetto L. Faux, che è stato l’inizio dei lavori con la fotografia. In precedenza avevo fatto le prime Figures, gli Skin Drawings, le Monumental sculture, i primi Anamorphs e degli effetti speciali per l’industria cinematografica. Mi è chiaro che tutti questi precedenti si sono riuniti a informare la nuova fase di lavoro. Questo per dire che comincio a sentirmi più a mio agio con questo nuovo insieme di opere.

RE: È interessante il fatto che, se chiediamo al nostro corpo, alla fine esso ci dirà tutto ciò che ci serve sapere

EP: Esattamente.