Evan Penny - Reviews & Essays

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Chiedi al tuo corpo: un invito

Si racconta che Picasso, in treno, fu interpellato da uno sconosciuto che gli chiese con aria di sfida: “Perché non dipinge le cose come sono?”. Picasso rispose mitemente che non capiva bene il senso di quella domanda; allora lo sconosciuto estrasse dal portafoglio una foto di sua moglie. “Voglio dire questo”, rispose. “Ecco mia moglie è così.” E Picasso, con un colpetto di tosse imbarazzato: “È piccolina, no? E anche un po’ piatta…”.

— G. Bateson, M.C. Bateson, Dove gli angeli esitano

La prima volta che mi sono trovato di fronte alle sculture di Evan Penny sono rimasto colpito dal loro lato inquietante ma al tempo stesso familiare. In seguito sono giunto ad apprezzare queste due qualità come le condizioni fondamentali del suo lavoro. Il loro aspetto inquietante è legato al fatto che Penny crea sculture del corpo umano e non sculture figurative. Una scultura del corpo umano usa il linguaggio e il vocabolario di esperienze vissute, viscerali, mentre una scultura figurativa è la rappresentazione astratta di un corpo. Le sculture di Penny comunicano come voi e io, in quanto corpi, percepiamo il nostro corpo e quello degli altri, e come ci relazioniamo con essi. Mostrano indizi, che noi cogliamo, su prossimità, scala, parallasse, vertigine e molti fenomeni senza nome ma conosciuti. Il nostro corpo è un grande cervello; pensiamo con il corpo, non solo con la mente.

Riconoscere il procedimento tecnico evidente con cui l’artista ha realizzato le sue sculture è solo il punto di partenza, l’invito a percepire la sua arte. Allorché la parte preverbale del mio cervello giunge a credere alla veracità di quanto mi viene mostrato, anche le mie emozioni e i miei pensieri possono essere coinvolti. In altre parole, una volta che credo a ciò che la scultura mi mostra formalmente, posso iniziare a compiere ulteriori associazioni partendo dal contenuto.

Il senso di familiarità che colgo nelle sculture di Penny non deriva da ciò che esse sono, ma dal modo in cui sono familiari. Di fronte alle opere di Penny mi sovvengo di avere già provato in passato questa consapevolezza del corpo, attraverso gli innumerevoli incontri con le persone e attraverso i rapporti intessuti con loro nello spazio e nel tempo. Penny usa questa consapevolezza familiare del corpo per turbarvi, così da rendervi coscienti di qualcosa che magari avevate ignorato, o sottovalutato, in voi stessi e negli altri. Date un’altra occhiata e vi formate un’impressione nuova. Non statemi così vicino.

Tutti abbiamo avuto l’esperienza di vedere un estraneo da qualche parte e pensare per un istante che fosse qualcuno che conoscevamo, ma ecco che ricordiamo l’originale di quell’impostore e pensiamo “ricordo che…” oppure “chissà cosa farà adesso”. O forse abbiamo visto un’opera d’arte da qualche parte e ce ne sfuggono il titolo o il nome dell’artista. Ma ciò che vediamo in quel viso, braccio o gesto lo associamo ora al ricordo di qualcuno (o di un’altra opera d’arte, che non ha niente a che fare con quella) e avviene una sorta di shock, un momento di risveglio. Un momento. Poi dimentichiamo finché non facciamo un altro incontro che ci turba, e allora il corpo ci fa un’altra domanda. È reale?

Il corpo è ovviamente un tema familiare nella storia e nell’iconografia della Chiesa. Crocifissi, dipinti, icone, sculture e rilievi devozionali o commemorativi… su tutti sono raffigurati corpi che fungono da simboli e rappresentazioni delle opere di Dio, Gesù Cristo e altri. Nella lunga storia della Chiesa, questa presentazione del corpo è stata una metafora portante all’interno della comunità, della pratica e della fede. Le sculture di Penny esposte nella chiesa di San Samuele offrono un contributo a questa storia, nel loro modo particolare, positivamente inquietante.

 

La mostra nella chiesa di San Samuele nasce attorno alle nuove opere dell’artista, la prima delle quali è Omaggio a Holbein, una versione scultorea allungata del Corpo di Cristo morto nella tomba di Hans Holbein il Giovane (1521-1522). Penny ha “stirato” l’immagine di Cristo fino a una lunghezza di oltre quattro metri, allungando le parti del corpo e, con esso, l’espressione tormentata del suo volto. L’allungamento evoca la proiezione anamorfica del teschio sospeso in primo piano sul pavimento del dipinto Gli ambasciatori di Holbein (1533), tecnica già utilizzata in precedenza da Penny nei suoi ritratti. La drasticità dello stiramento esprime l’idea di un rallentamento della nostra visione: grazie alla maggiore lunghezza della figura possiamo ricavare più informazioni.

È stato quando Penny ha realizzato Marsia che ho cominciato a notare la presenza di un involontario tema veneziano. Quest’opera è stata ispirata da una statua di marmo di Marsia, la copia romana di un originale del III secolo a.C. proveniente da Tarso (Turchia), oggi conservata ai Musei archeologici di Istanbul. Anche la figura del Marsia di Penny, che sembra suggerire un Cristo crocifisso, è molto allungata, sebbene non in modo così radicale come Omaggio a Holbein: la sua forma si affusola come una fiamma per tendere verso l’alto o, se guardiamo il volto, verso il basso. Durante l’organizzazione di questa mostra mi sono imbattuto nella storia di Marcantonio Bragadin, il capitano veneziano rettore di Famagosta nel regno di Cipro che nel 1571 fu scorticato vivo e squartato dagli Ottomani. La sua pelle venne conservata e successivamente portata a Venezia, dove si trova tuttora, sepolta nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo. L’episodio della tortura e della morte di Bragadin ha forse ispirato La punizione di Marsia del Tiziano (1570-1576), opera dipinta nella sua bottega situata non lontano dalla chiesa di San Samuele, una particolarità ignorata da Penny.

Entrambi il Torso sospeso e l’Autoritratto dai frammenti anatomici di Géricault raffigurano parti di corpi umani, ma ci appaiono come sculture intere e complete. Siamo ormai abituati a vedere simili frammenti esposti in musei e collezioni, portati alla luce in siti storici e presentati come oggetti completi a pieno titolo. Il Torso sospeso è la copia di un frammento del torso di un centauro in marmo rosso antico risalente al I-II secolo d.C. e conservato al Metropolitan Museum of Art di New York. Penny ha ricreato il torso su grande scala, replicandone la possente struttura muscolare in un’imponente presenza appesa capovolta (come il Marsia a testa in giù del Tiziano), sospesa, quasi fluttuasse leggera come l’aria.

Per l’Autoritratto dai frammenti anatomici di Géricault, un omaggio scultoreo agli studi di parti del corpo eseguiti da Théodore Géricault in preparazione della Zattera della Medusa (1818-1819), Penny ha usato i calchi del proprio braccio e delle proprie gambe. La scultura, due volte più grande del naturale, è posata su quella che sembra la lastra di un antico reliquiario in marmo, con la mano e i piedi che invitano lo spettatore a osservare l’opera più da vicino. Ma quando si nota la netta troncatura delle membra si ha la consapevolezza che queste appendici una volta appartenevano a un insieme più grande: un corpo. Di fronte all’assenza delle altre parti (le braccia, le gambe e una testa per Torso sospeso, un braccio e il resto del corpo per Autoritratto…), ci chiediamo come dovevano essere questi corpi interi e li riassembliamo nella nostra immaginazione.

Le due età della vita, la giovinezza e la vecchiaia, possono continuamente essere soggette a speculazione, mitizzazione e autoinganno. In questa mostra sono rappresentate da Young SelfOld Self, 2011. Create da Penny re-immaginando com’era da giovane (“A cosa pensavo…?”) e come potrà essere da vecchio (“Riuscite a immaginarvi invecchiare…?”), queste due opere costituiscono un paradosso. Dal nostro punto di vista nel presente, è possibile sapere davvero chi eravamo nel passato o chi saremo nel futuro? E chi siamo adesso in relazione a questi due punti? Nello stesso modo in cui il nostro essere passato e quello futuro vengono continuamente creati da un re-immaginare fittizio, così anche la percezione del nostro essere attuale può equivalere a una finzione, influenzata dalle altre due finzioni poste fuori dai confini del tempo.

Potete avere già visto cose simili a queste, ma non proprio. Ci sono cose nel mondo e cose nell’arte, e anche se possono sembrare uguali in realtà non lo sono. E questa è, nel lavoro di Penny, la differenza che fa la differenza. Infatti, se prendiamo ciò che una cosa sembra essere, vi aggiungiamo ciò che pensiamo pretenda di essere e combiniamo il tutto con ciò che essa è “realmente”, il risultato è ciò che rende possibile sia l’opera d’arte sia il regno del sacro. Se non ci ponessimo la domanda “E se…?” non tenteremmo di creare altri mondi, non avremmo fede in qualcosa né la capacità di provare empatia. La nostra volontà di porre domande può talvolta essere in conflitto con la nostra disponibilità a cercare le risposte. Come ha detto David Tudor: “Se non sai, perché domandi?”.

Michael Short, 2017